Pur non essendo di spessore, stavolta capita a noi ospitare un post della Voce che spesso rende emozionanti le gare di orientamento in giro per l'Italia (e non solo...)
Siamo alla numero 2....presto arriverà anche la 1, stavolta sul blog usuale e più consono...sedetevi comodi!
E voi dove eravate quel giorno?
Inutile girarci troppo attorno. Ci sono vittorie
e vittorie. Sono belle quelle che giungono inaspettate, quelle
sofferte, quelle inspiegabili e quelle conquistate all’ultimo secondo
sull’acerrimo rivale. Ma ci sono anche quelle che rappresentano
il trionfo di un’intera scuola sportiva, quelle che sono talmente
sicure da costituire un motivo di legittimo orgoglio nei cuori dei
sostenitori e dei tifosi di tutto un intero paese. Può capitare,
talvolta, che qualcuna di queste vittorie la si conquisti
addirittura giocando in casa, davanti al proprio pubblico, alla
presenza dei propri rappresentanti ufficiali; quando succedono queste
cose, la televisione non può che mostrare, con toni sempre più enfatici,
il tripudio di bandiere con i tre colori che sventolano
e garriscono al vento.
Sono quelle vittorie che abbiamo sognato fin da
quando eravamo bambini, ed la gioia per il fatto che vengano conquistati
dai nostri beniamini non viene svilita dal “come vorrei essere al loro
posto…”. Si, dopo 6 racconti di vittorie
che hanno portato il batticuore a quota 200 al minuto, è bello
celebrare la vittoria di una macchina perfetta, messa a punto per
conquistare la medaglia d’oro olimpica senza alcuna possibilità di
errore. La macchina perfetta che rappresenta una nazione al
meglio delle proprie possibilità. Sono loro i quattro eroi di questa
settima storia: Sture, Vegard, Thomas e Bjorne. Talmente superiori,
talmente perfetti e così ben assemblati che nulla può fermare la loro
corsa all’oro, il 22 febbraio 1994 allo stadio Birkebeineren,
davanti a centomila persone entusiaste ed al re di Norvegia
Nulla… salvo il sogno di quattro folli.
“Non è possibile”. Così chiosa il sottoscritto, non
ancora speaker. E’ la mattina del 22 febbraio 1994, un martedì. Il
programma della giornata prevede di non andare in Osservatorio a
studiare per la tesi, di prendere un turno di riposo.
Perché oggi è il giorno in cui si soffre, guardando in televisione la
staffetta 4x10 olimpica di sci di fondo; una sofferenza che è il caso di
affrontare da soli, preparandosi a tifare in modo sguaiato allo sparo
del via e sapendo che prima o poi, di solito
più prima che poi, il velo grigiastro della sconfitta arriverà a calare
sulla competizione. Non siamo certo al “frittatone di cipolle,
famigliare di Peroni gelata, tifo indiavolato e rutto libero”… ma voglio
sentirmi libero di smadonnare sguaiatamente in totale
solitudine, senza avere tra i piedi (in casa) i genitori a limitarmi o a
guardarmi allibiti.
E poi, mio padre ed io non parliamo molto spesso di
avvenimenti sportivi e pronostici. Soprattutto quelli immediatamente
futuri; lui tende a parlarmi solo degli avvenimenti passati,
immediatamente passati, di cui magari mi sta allungando
la videocassetta registrata mentre sono in Osservatorio, condendo la
consegna con qualche frase di circostanza che regge il confronto con le
gags Vianello-Mondaini: “Questa partita la devi guardare proprio fino
alla fine!”; eh già… ho chiesto la registrazione
di gara 1 di finale Lakers-Sixers per guardare solo il primo quarto
della partita! Così, a 50 secondi dalla fine della partita e con i
Lakers sopra di 5 palla in mano non mi è toccato che chiedermi “Vediamo
adesso come riescono questi ad incasinare tutto!”
(seguono i 5 minuti e 50 secondi più fantastici della carriera di Allen
Iverson e vittoria Sixers). Oppure ancora, stessa serie finale: “Eccola
registrazione della partita (gara 5). Comunque quei due sono troppo
forti per chiunque”; dato che “i due” sono Kobe
e Shaq, la mia risposta è stata “Grazie per la cassetta, papà. Stasera
però ho da fare…”.
Per questo motivo, mentre aspetto che lui e mia
madre escano di casa lasciandomi campo libero davanti allo schermo
televisivo, rispondo “Non è possibile” quando mio padre annuncia
serafico che Sandro Vanoi, l’allenatore della nazionale
italiana di sci di fondo, ha deciso di schierare in prima frazione
Maurilio De Zolt. La prima frazione della staffetta… quella sulla quale
sembra essere stata gettata una maledizione, una autentica “curse of the
first leg”; negli ultimi anni l’Italia ha schierato
staffette sempre più forti, sempre più in grado di competere ad armi
(quasi) pari con le corazzate nordiche, ma in ogni occasione mondiale
oppure olimpica è mancata la lira per fare il milione. Di solito quella
lira è costituita dalla prima frazione; se la
squadra italiana “sopravvive” al primo affondo, sarà un altro anello
della catena (ed uno solo) a bucare la gara. La maledizione “brucia” nel
corso degli anni fondisti posizione nei 10 in un mondiale individuale:
Silvano Barco, Christian Saurer, Albert Walder,
Giuseppe Ploner, Gianfranco Polvara… Nel 1994 i tre cardini della
staffetta azzurra sono Marco Albarello, Silvio Fauner e Giorgio Vanzetta
per il quale si prevede la solita rincorda furiosa che consente ai
giornali di scrivere a parziale lenimento della sconfitta
“miglior tempo di gara per Vanzetta, in terza frazione” (un po’ quello
che scriviamo sui blog, quando il vincitore della categoria ci da – mi
da! – un distacco di 40 minuti ma… l’attacco al punto 6 come l’ho fatto
io non l’ha fatto nessuno!!!). Per questo
motivo quando mio padre, già sulla porta di casa, mi dice che Vanoi ha
deciso di giocarsi il 44enne Maurilio De Zolt in prima frazione,
rispondo “Non è possibile”. Non lo è per il rispetto che si nutre nei
confronti del più vecio del gruppo, che ha già speso
tanto nella 30 km di apertura. E non lo è perché si tratta di un
rischio enorme: una formazione standard potrebbe avvicinare o garantire
il bronzo, forse l’argento… l’oro no! L’oro è per quei quattro là, per
quelli di casa che stanno vincendo tutto. Perché
rischiare quindi?
La telecronaca è affidata a Giacomo Mazzocchi (si,
quello di Bordin). Il tono è emozionato, ma nel sottofondo si coglie
qualcosa di già pronto alla resa, le frasi di circostanza “se arrivasse
un argento, sarebbe come un oro”, “un podio
che sarebbe fantastico”… la medaglia d’oro appare lontana quanto può
esserlo Anne Hathaway dalla mia sedia di scribacchino. Allo sparo del
via! il piccolo fondista con 44 primavere sulle spalle si trova a fianco
di due futuri campioni olimpici come Sture Siversten
e Mika Myllylae. Primi chilometri ed è ancora tutto ok, il gruppo
procede abbastanza compatto, la tuta blu dell’Italia è sempre a contatto
del capofila, e nella testa scorre è un contachilometri al contrario
che parte da “10 km” e pian piano erode metri su
metri verso il traguardo della prima frazione. La tattica di gara
prevista da Vanoi forse prevederebbe solo di tenere il ritmo dei primi
il più a lungo possibile, per allungare la durata del sogno destinato
presto o tardi ad infrangersi; invece De Zolt a tratti
passa addirittura al comando… che sia già a corto di benzina e voglia
provare a imporre un ritmo più blando? No, perché ad ogni attacco
qualche vagoncino del gruppo si stacca… e la testa vorrebbe urlagli di
stare tranquillo, di aspettare, di tenere le energie
per gli ultimi strappi del percorso di Birkebeineren (esperienza che,
anno dopo, non mi impedirà di pensare tutto ciò che ho già scritto in
merito alla cavalcata di Schwazer…). Poi, inevitabile, nel secondo giro
De Zolt si stacca, ma mancano davvero pochissimi
chilometri, poi solo uno, poi solo qualche centinaio di metri che, per
quanto possano essere duri nelle gambe e nelle braccia dell’azzurro,
sono davvero l’ultimo salto verso il traguardo. Anche se davanti
Norvegia e Finlandia tirano allo spasimo, quanto distacco
si può accumulare in così poco spazio? Trenta secondi? Sarebbero
troppi. Venti secondi? Sarebbero tanti. L’urlo che si leva da casa mia
al passaggio del testimone a Marco Albarello risuona ancora “DAGLI QUEL
FOTTUTISSIMO CAMBIO!!!”. Il cambio arriva 8 secondi
dopo che Vegard Ulvang e Harri Kirvesniemi (mica Gianni & Pinotto)
sono partiti. Il sogno dei quattro folli è ancora vivo…
Ora sul contagiri nella testa non scorrono più i
metri che mancano al cambio, ma i secondi di distacco tra il duo di
testa e l’Italia. Con le telecamere che riprendono la gara quasi per
intero, basta fissare un punto sul quale passano gli
sci del primo e poi cominciare a contare… uno… due… tre… quattro…
cin(dove ‘azzo sei?)que… sei… set(dove ‘AZZO ‘AZZO sei?)te… ECCOLO!
Sette è meno di otto, e sei è meno di sette; lo spazio è relativo, la
salita accorcia la distanza e la discesa lo allunga,
ma cinque secondi sono meno di sei e poi forse quattro sono meno di
cinque. Quando il terzetto compare in fondo ad un’altra discesa… eh!
‘Azzo! Ma adesso sono praticamente insieme!!! Basta che Albarello
stacchi il piede dal freno in fondo alla discesa ed il
duo è diventato un trio, e per rendere le cose ancora più chiare
l’italiano si porta persino in testa; sembra ad un tratto di rivivere la
rissa di “Braa brakk staven” (va cercato su youtube) quando il contatto
dei tre atleti (nel filmato di Holmenkollen erano
due soli, il sovietico e il norvegese) sui due binari della tecnica
classica diventa una vera e propria collisione! Adesso sono in tre e si
può ricominciare a respirare: la prima parte della maledizione è stata
superata indenne, ora bisogna indovinare quando
capiterà il patatrac!, in quale punto del percorso e soprattutto a chi
toccherà dare il proverbiale calcio al secchio col latte appena munto.
Albarello da il cambio in testa a Giorgio Vanzetta…
… ovvero all’atleta di cui il primo ricordo risale a
Lake Placid 1980… anche se quella volta gli toccò cedere a Wassberg
nonostante lo svedese fosse finito a gambe all’aria a metà dell’ultima
frazione. Vanzetta? Possibile che l’onere della
sconfitta tocchi proprio a lui, a colui che per anni e anni di
staffette aveva portato la croce nel tentativo di rimediare a distacchi
epocali? Perché… non è che con l’Italia in testa a metà gara sia
cambiato il
mood di sottofondo: questi sono i norvegesi, qui siamo in
Norvegia, tutti gli altri sono dei comprimari che partecipano alla festa
casalinga come riempitivo per le posizioni dalla seconda alla ennesima!
Invece nella terza frazione non succede nulla.
Vanzetta per una volta non potrà fregiarsi dell’inutile e inesistente
alloro del “giro più veloce”: al lancio dell’ultima frazione le squadre
al comando sono ancora tre. Parte l’imperatore di Norvegia, Bjorne
Daehlie, parte Silvio Fauner e parte Jari Isometsae.
Il finlandese, in questa storia, è di troppo: qualche strappo in testa
di Daehlie, e resta solo Fauner al suo fianco. Ovvero restano solo i
vincitori della medaglia d’oro e l’Italia.
Piccolo salto avanti nel tempo. Campionati italiani
a staffetta di Jenesien. Il narratore per il sito Fiso, nel descrivere
l’ultimo giro della staffetta femminile, scriverà “nessuno adesso
vorrebbe essere nei panni di Marina Simion in terza
frazione a difendere qualche decina di secondi di vantaggio su due
mastini come Laura Scaravonati e Heike Torggler; nessuno... tranne forse
Marina stessa”. Quel narratore sono io, e quel narratore aveva bene in
mente una cosa: Silvio Fauner. Probabilmente
è l’unico in tutta Birkebeineren a sentirsi a suo agio nei panni di
quello che veste la tuta con i colori sbagliati, quei colori diversi da
quelli centomila bandiere che ancora sventolano così sicure del
risultato finale. Forse Fauner sente di avere le gambe
che girano, forse tutte i terribili affondi che Daehlie mette in atto
appena il sentiero si inerpica non ne intaccano la resistenza,
sicuramente l’italiano ha le “bombe sotto i piedi” come tutti possono
vedere nell’ultima discesa che, dopo 39 chilometri e
mezzo, porta allo stadio: Fauner salta Daehlie e lo costringe a fare
l’ultima curva stando al largo. Rettilineo finale. Daehlie accelera le
frequenze… Daehlie passa… Daehlie passa… perché non passa?... non sta
passando… non sta passando proprio!... il metro
di vantaggio con cui Fauner è entrato sul rettilineo resta tale, ed il
traguardo è lì, è sempre più vicino. E’ lì e non c’è nessun norvegese
che possa spostarlo più lontano per dare ancora una chance ai norvegesi!
Fauner vince lo sprint. Ad aspettarlo pochi metri
dopo il traguardo ci sono i nuovi campioni olimpici: il vecchio pronto
per la rottamazione, quello che avevano dato del bollito ed infine il
perfetto perdente di tante edizioni precedenti.
Vincono con il loro sogno, perdono tutti gli altri. Come hanno vinto o
vincerano altri sogni che non il sogno che non hanno trovato posto
nella mia rassegna, dal settebello maschile a Barcellona 1992 al
setterosa femminile ad Atene 2004.
In verità non sempre il trionfo arride ai “brutti
anatroccoli”… gli sfavoriti, i brutti, i perdenti-sulla-carta.
Altrimenti non sarebbero tali, no?!? Ma non è meraviglioso pensare che
in ogni gara, da quelle dei semplici amatori alla finale
del Campionato dell’Universo, ci sia una chance per tutti di
conquistare il primato? I sogni muoiono solo quando decidiamo di
svegliarci, non certo al momento del via! o al primo suono del gong o
perché qualche cosiddetto “esperto” ha così sentenziato.
Quanto la staffetta di Lillehammer possa essere
rimasto nell’immaginario collettivo degli sportivi norvegesi (più ancora
che in quello italiano) mi è parso chiaro quando mi sono cimentato come
speaker ai JWOC in Primiero, anzi meglio: nella
5 giorni di contorno. Erano tantissimi i norvegesi scesi in Trentino
per le gare, per tifare ai JWOC e non certo per ascoltare uno speaker
come me. In occasione della terza tappa, avemmo nella stessa giornata a
grandine (quando ho fatto la gara io), poi un
sole splendido e poi in serata di nuovo la grandine. La gara terminava
lassù sullo sperduto piazzale dell’Ecoqualcosa di S.Martino, dove non
c’era una vera e propria arena-gara e dove quindi non dovevo condividere
il microfono con nessun Timo o Lucie o Wolfgang;
quindi Fabio Dalla Riva ed io siamo liberi di fare tutto il casino che
vogliamo, mettere la musica, dare classifiche alla caxxo, prendere in
giro chiunque e parlare al microfono di tutto quel che ci pare. Sono
libero di intervistare Helena Jansson e dire che
se non accenna subito a qualche passo di danza al ritmo di
“Voulez-vous” degli ABBA non le verrà consegnato il premio per il primo
posto Elite di tappa; sono libero di intervistare Allan Mogensen
chiedendogli “Sai che sei l’idolo di un mio compagno di staffetta
perché una volta ad un mondiale master ha fatto una lanterna meglio di
te?” (segue il suo sguardo mooooolto perplesso). Ad un certo punto
dall’arena-stadio di San Martino di Castrozza sale una notizia: gli
atleti si stanno lamentando perché gli arrivi non
se li fila nessuno, mentre su c’è un matto che mette la musica e fa
commenti in sei lingue (tre le so, per le altre invento)!
Non so come e perché, Fabio ed io andammo a parlare
di Lillehammer (forse era arrivato al tragiardo proprio qualcuno del
locale orienteering team) ed io cominciai, nel mio basico inglese, a
raccontare la storia della staffetta del 1994.
Molti norvegesi abbandonarono il posto all’istante!!! Chissà… forse
sono stati loro a raccontare che lassù lo speaker sembrava un matto.
Sono convinto che non se ne siano andati perché erano stufi di sentire
il mio “basico inglese”! Forse se ne sono andati
quando hanno sentito una frase che ancora campeggia nel mio blog: ““Se
non sapete cosa è successo a Lillehammer nel 1994, allora vuol dire che
non siete italiani e non siete nemmeno norvegesi!”
Quella della staffetta italiana di Lillehammer 1994
è la storia che preferisco, è la vittoria sportiva italiana più bella
che è rimasta impressa nella mia memoria, ma è anche solo la puntata “7
di 8”. Perché? La registrazione della staffetta
di Lillehammer è, insieme ai tempi supplementari della prima finale di
Coppa del Mondo di Rugby (Sud Africa – Nuova Zelanda … e se Clint
Eastwood ci ha fatto un film, ci sarà un perché), quella che ho visto
più spesso nel corso degli anni. Salvo un unico evento
sportivo.
Per questo motivo c’è ancora spazio per una storia, anche se per una soltanto.
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