lunedì 1 luglio 2013

Ladies & gentlemen....The voice!

Gli spazi editoriali di spessore hanno talvolta l'opportunità di ospitare le grandi firme.
Pur non essendo di spessore, stavolta capita a noi ospitare un post della Voce che spesso rende emozionanti le gare di orientamento in giro per l'Italia (e non solo...)

Siamo alla numero 2....presto arriverà anche la 1, stavolta sul blog usuale e più consono...sedetevi comodi!



E voi dove eravate quel giorno?
Inutile girarci troppo attorno. Ci sono vittorie e vittorie. Sono belle quelle che giungono inaspettate, quelle sofferte, quelle inspiegabili e quelle conquistate all’ultimo secondo sull’acerrimo rivale. Ma ci sono anche quelle che rappresentano il trionfo di un’intera scuola sportiva, quelle che sono talmente sicure da costituire un motivo di legittimo orgoglio nei cuori dei sostenitori e dei tifosi di tutto un intero paese. Può capitare, talvolta, che qualcuna di queste vittorie la si conquisti addirittura giocando in casa, davanti al proprio pubblico, alla presenza dei propri rappresentanti ufficiali; quando succedono queste cose, la televisione non può che mostrare, con toni sempre più enfatici, il tripudio di bandiere con i tre colori che sventolano e garriscono al vento.

Sono quelle vittorie che abbiamo sognato fin da quando eravamo bambini, ed la gioia per il fatto che vengano conquistati dai nostri beniamini non viene svilita dal “come vorrei essere al loro posto…”. Si, dopo 6 racconti di vittorie che hanno portato il batticuore a quota 200 al minuto, è bello celebrare la vittoria di una macchina perfetta, messa a punto per conquistare la medaglia d’oro olimpica senza alcuna possibilità di errore. La macchina perfetta che rappresenta una nazione al meglio delle proprie possibilità. Sono loro i quattro eroi di questa settima storia: Sture, Vegard, Thomas e Bjorne. Talmente superiori, talmente perfetti e così ben assemblati che nulla può fermare la loro corsa all’oro, il 22 febbraio 1994 allo stadio Birkebeineren, davanti a centomila persone entusiaste ed al re di Norvegia

Nulla… salvo il sogno di quattro folli.

“Non è possibile”. Così chiosa il sottoscritto, non ancora speaker. E’ la mattina del 22 febbraio 1994, un martedì. Il programma della giornata prevede di non andare in Osservatorio a studiare per la tesi, di prendere un turno di riposo. Perché oggi è il giorno in cui si soffre, guardando in televisione la staffetta 4x10 olimpica di sci di fondo; una sofferenza che è il caso di affrontare da soli, preparandosi a tifare in modo sguaiato allo sparo del via e sapendo che prima o poi, di solito più prima che poi, il velo grigiastro della sconfitta arriverà a calare sulla competizione. Non siamo certo al “frittatone di cipolle, famigliare di Peroni gelata, tifo indiavolato e rutto libero”… ma voglio sentirmi libero di smadonnare sguaiatamente in totale solitudine, senza avere tra i piedi (in casa) i genitori a limitarmi o a guardarmi allibiti.

E poi, mio padre ed io non parliamo molto spesso di avvenimenti sportivi e pronostici. Soprattutto quelli immediatamente futuri; lui tende a parlarmi solo degli avvenimenti passati, immediatamente passati, di cui magari mi sta allungando la videocassetta registrata mentre sono in Osservatorio, condendo la consegna con qualche frase di circostanza che regge il confronto con le gags Vianello-Mondaini: “Questa partita la devi guardare proprio fino alla fine!”; eh già… ho chiesto la registrazione di gara 1 di finale Lakers-Sixers per guardare solo il primo quarto della partita! Così, a 50 secondi dalla fine della partita e con i Lakers sopra di 5 palla in mano non mi è toccato che chiedermi “Vediamo adesso come riescono questi ad incasinare tutto!” (seguono i 5 minuti e 50 secondi più fantastici della carriera di Allen Iverson e vittoria Sixers). Oppure ancora, stessa serie finale: “Eccola registrazione della partita (gara 5). Comunque quei due sono troppo forti per chiunque”; dato che “i due” sono Kobe e Shaq, la mia risposta è stata “Grazie per la cassetta, papà. Stasera però ho da fare…”.

Per questo motivo, mentre aspetto che lui e mia madre escano di casa lasciandomi campo libero davanti allo schermo televisivo, rispondo “Non è possibile” quando mio padre annuncia serafico che Sandro Vanoi, l’allenatore della nazionale italiana di sci di fondo, ha deciso di schierare in prima frazione Maurilio De Zolt. La prima frazione della staffetta… quella sulla quale sembra essere stata gettata una maledizione, una autentica “curse of the first leg”; negli ultimi anni l’Italia ha schierato staffette sempre più forti, sempre più in grado di competere ad armi (quasi) pari con le corazzate nordiche, ma in ogni occasione mondiale oppure olimpica è mancata la lira per fare il milione. Di solito quella lira è costituita dalla prima frazione; se la squadra italiana “sopravvive” al primo affondo, sarà un altro anello della catena (ed uno solo) a bucare la gara. La maledizione “brucia” nel corso degli anni fondisti posizione nei 10 in un mondiale individuale: Silvano Barco, Christian Saurer, Albert Walder, Giuseppe Ploner, Gianfranco Polvara… Nel 1994 i tre cardini della staffetta azzurra sono Marco Albarello, Silvio Fauner e Giorgio Vanzetta per il quale si prevede la solita rincorda furiosa che consente ai giornali di scrivere a parziale lenimento della sconfitta “miglior tempo di gara per Vanzetta, in terza frazione” (un po’ quello che scriviamo sui blog, quando il vincitore della categoria ci da – mi da! – un distacco di 40 minuti ma… l’attacco al punto 6 come l’ho fatto io non l’ha fatto nessuno!!!). Per questo motivo quando mio padre, già sulla porta di casa, mi dice che Vanoi ha deciso di giocarsi il 44enne Maurilio De Zolt in prima frazione, rispondo “Non è possibile”. Non lo è per il rispetto che si nutre nei confronti del più vecio del gruppo, che ha già speso tanto nella 30 km di apertura. E non lo è perché si tratta di un rischio enorme: una formazione standard potrebbe avvicinare o garantire il bronzo, forse l’argento… l’oro no! L’oro è per quei quattro là, per quelli di casa che stanno vincendo tutto. Perché rischiare quindi?

La telecronaca è affidata a Giacomo Mazzocchi (si, quello di Bordin). Il tono è emozionato, ma nel sottofondo si coglie qualcosa di già pronto alla resa, le frasi di circostanza “se arrivasse un argento, sarebbe come un oro”, “un podio che sarebbe fantastico”… la medaglia d’oro appare lontana quanto può esserlo Anne Hathaway dalla mia sedia di scribacchino. Allo sparo del via! il piccolo fondista con 44 primavere sulle spalle si trova a fianco di due futuri campioni olimpici come Sture Siversten e Mika Myllylae. Primi chilometri ed è ancora tutto ok, il gruppo procede abbastanza compatto, la tuta blu dell’Italia è sempre a contatto del capofila, e nella testa scorre è un contachilometri al contrario che parte da “10 km” e pian piano erode metri su metri verso il traguardo della prima frazione. La tattica di gara prevista da Vanoi forse prevederebbe solo di tenere il ritmo dei primi il più a lungo possibile, per allungare la durata del sogno destinato presto o tardi ad infrangersi; invece De Zolt a tratti passa addirittura al comando… che sia già a corto di benzina e voglia provare a imporre un ritmo più blando? No, perché ad ogni attacco qualche vagoncino del gruppo si stacca… e la testa vorrebbe urlagli di stare tranquillo, di aspettare, di tenere le energie per gli ultimi strappi del percorso di Birkebeineren (esperienza che, anno dopo, non mi impedirà di pensare tutto ciò che ho già scritto in merito alla cavalcata di Schwazer…). Poi, inevitabile, nel secondo giro De Zolt si stacca, ma mancano davvero pochissimi chilometri, poi solo uno, poi solo qualche centinaio di metri che, per quanto possano essere duri nelle gambe e nelle braccia dell’azzurro, sono davvero l’ultimo salto verso il traguardo. Anche se davanti Norvegia e Finlandia tirano allo spasimo, quanto distacco si può accumulare in così poco spazio? Trenta secondi? Sarebbero troppi. Venti secondi? Sarebbero tanti. L’urlo che si leva da casa mia al passaggio del testimone a Marco Albarello risuona ancora “DAGLI QUEL FOTTUTISSIMO CAMBIO!!!”. Il cambio arriva 8 secondi dopo che Vegard Ulvang e Harri Kirvesniemi (mica Gianni & Pinotto) sono partiti. Il sogno dei quattro folli è ancora vivo…

Ora sul contagiri nella testa non scorrono più i metri che mancano al cambio, ma i secondi di distacco tra il duo di testa e l’Italia. Con le telecamere che riprendono la gara quasi per intero, basta fissare un punto sul quale passano gli sci del primo e poi cominciare a contare… uno… due… tre… quattro… cin(dove ‘azzo sei?)que… sei… set(dove ‘AZZO ‘AZZO sei?)te… ECCOLO! Sette è meno di otto, e sei è meno di sette; lo spazio è relativo, la salita accorcia la distanza e la discesa lo allunga, ma cinque secondi sono meno di sei e poi forse quattro sono meno di cinque. Quando il terzetto compare in fondo ad un’altra discesa… eh! ‘Azzo! Ma adesso sono praticamente insieme!!! Basta che Albarello stacchi il piede dal freno in fondo alla discesa ed il duo è diventato un trio, e per rendere le cose ancora più chiare l’italiano si porta persino in testa; sembra ad un tratto di rivivere la rissa di “Braa brakk staven” (va cercato su youtube) quando il contatto dei tre atleti (nel filmato di Holmenkollen erano due soli, il sovietico e il norvegese) sui due binari della tecnica classica diventa una vera e propria collisione! Adesso sono in tre e si può ricominciare a respirare: la prima parte della maledizione è stata superata indenne, ora bisogna indovinare quando capiterà il patatrac!, in quale punto del percorso e soprattutto a chi toccherà dare il proverbiale calcio al secchio col latte appena munto. Albarello da il cambio in testa a Giorgio Vanzetta…

… ovvero all’atleta di cui il primo ricordo risale a Lake Placid 1980… anche se quella volta gli toccò cedere a Wassberg nonostante lo svedese fosse finito a gambe all’aria a metà dell’ultima frazione. Vanzetta? Possibile che l’onere della sconfitta tocchi proprio a lui, a colui che per anni e anni di staffette aveva portato la croce nel tentativo di rimediare a distacchi epocali? Perché… non è che con l’Italia in testa a metà gara sia cambiato il mood di sottofondo: questi sono i norvegesi, qui siamo in Norvegia, tutti gli altri sono dei comprimari che partecipano alla festa casalinga come riempitivo per le posizioni dalla seconda alla ennesima! Invece nella terza frazione non succede nulla. Vanzetta per una volta non potrà fregiarsi dell’inutile e inesistente alloro del “giro più veloce”: al lancio dell’ultima frazione le squadre al comando sono ancora tre. Parte l’imperatore di Norvegia, Bjorne Daehlie, parte Silvio Fauner e parte Jari Isometsae. Il finlandese, in questa storia, è di troppo: qualche strappo in testa di Daehlie, e resta solo Fauner al suo fianco. Ovvero restano solo i vincitori della medaglia d’oro e l’Italia.

Piccolo salto avanti nel tempo. Campionati italiani a staffetta di Jenesien. Il narratore per il sito Fiso, nel descrivere l’ultimo giro della staffetta femminile, scriverà “nessuno adesso vorrebbe essere nei panni di Marina Simion in terza frazione a difendere qualche decina di secondi di vantaggio su due mastini come Laura Scaravonati e Heike Torggler; nessuno... tranne forse Marina stessa”. Quel narratore sono io, e quel narratore aveva bene in mente una cosa: Silvio Fauner. Probabilmente è l’unico in tutta Birkebeineren a sentirsi a suo agio nei panni di quello che veste la tuta con i colori sbagliati, quei colori diversi da quelli  centomila bandiere che ancora sventolano così sicure del risultato finale. Forse Fauner sente di avere le gambe che girano, forse tutte i terribili affondi che Daehlie mette in atto appena il sentiero si inerpica non ne intaccano la resistenza, sicuramente l’italiano ha le “bombe sotto i piedi” come tutti possono vedere nell’ultima discesa che, dopo 39 chilometri e mezzo, porta allo stadio: Fauner salta Daehlie e lo costringe a fare l’ultima curva stando al largo. Rettilineo finale. Daehlie accelera le frequenze… Daehlie passa… Daehlie passa… perché non passa?... non sta passando… non sta passando proprio!... il metro di vantaggio con cui Fauner è entrato sul rettilineo resta tale, ed il traguardo è lì, è sempre più vicino. E’ lì e non c’è nessun norvegese che possa spostarlo più lontano per dare ancora una chance ai norvegesi!

Fauner vince lo sprint. Ad aspettarlo pochi metri dopo il traguardo ci sono i nuovi campioni olimpici: il vecchio pronto per la rottamazione, quello che avevano dato del bollito ed infine il perfetto perdente di tante edizioni precedenti. Vincono con il loro sogno, perdono tutti gli altri. Come hanno vinto o vincerano altri sogni che non  il sogno che non hanno trovato posto nella mia rassegna, dal settebello maschile a Barcellona 1992 al setterosa femminile ad Atene 2004.

In verità non sempre il trionfo arride ai “brutti anatroccoli”… gli sfavoriti, i brutti, i perdenti-sulla-carta. Altrimenti non sarebbero tali, no?!? Ma non è meraviglioso pensare che in ogni gara, da quelle dei semplici amatori alla finale del Campionato dell’Universo, ci sia una chance per tutti di conquistare il primato? I sogni muoiono solo quando decidiamo di svegliarci, non certo al momento del via! o al primo suono del gong o perché qualche cosiddetto “esperto” ha così sentenziato.

Quanto la staffetta di Lillehammer possa essere rimasto nell’immaginario collettivo degli sportivi norvegesi (più ancora che in quello italiano) mi è parso chiaro quando mi sono cimentato come speaker ai JWOC in Primiero, anzi meglio: nella 5 giorni di contorno. Erano tantissimi i norvegesi scesi in Trentino per le gare, per tifare ai JWOC e non certo per ascoltare uno speaker come me. In occasione della terza tappa, avemmo nella stessa giornata a grandine (quando ho fatto la gara io), poi un sole splendido e poi in serata di nuovo la grandine. La gara terminava lassù sullo sperduto piazzale dell’Ecoqualcosa di S.Martino, dove non c’era una vera e propria arena-gara e dove quindi non dovevo condividere il microfono con nessun Timo o Lucie o Wolfgang; quindi Fabio Dalla Riva ed io siamo liberi di fare tutto il casino che vogliamo, mettere la musica, dare classifiche alla caxxo, prendere in giro chiunque e parlare al microfono di tutto quel che ci pare. Sono libero di intervistare Helena Jansson e dire che se non accenna subito a qualche passo di danza al ritmo di “Voulez-vous” degli ABBA non le verrà consegnato il premio per il primo posto Elite di tappa; sono libero di intervistare Allan Mogensen chiedendogli “Sai che sei l’idolo di un mio compagno di staffetta perché una volta ad un mondiale master ha fatto una lanterna meglio di te?” (segue il suo sguardo mooooolto perplesso). Ad un certo punto dall’arena-stadio di San Martino di Castrozza sale una notizia: gli atleti si stanno lamentando perché gli arrivi non se li fila nessuno, mentre su c’è un matto che mette la musica e fa commenti in sei lingue (tre le so, per le altre invento)!

Non so come e perché, Fabio ed io andammo a parlare di Lillehammer (forse era arrivato al tragiardo proprio qualcuno del locale orienteering team) ed io cominciai, nel mio basico inglese, a raccontare la storia della staffetta del 1994. Molti norvegesi abbandonarono il posto all’istante!!! Chissà… forse sono stati loro a raccontare che lassù lo speaker sembrava un matto. Sono convinto che non se ne siano andati perché erano stufi di sentire il mio “basico inglese”! Forse se ne sono andati quando hanno sentito una frase che ancora campeggia nel mio blog: ““Se non sapete cosa è successo a Lillehammer nel 1994, allora vuol dire che non siete italiani e non siete nemmeno norvegesi!”

Quella della staffetta italiana di Lillehammer 1994 è la storia che preferisco, è la vittoria sportiva italiana più bella che è rimasta impressa nella mia memoria, ma è anche solo la puntata “7 di 8”. Perché? La registrazione della staffetta di Lillehammer è, insieme ai tempi supplementari della prima finale di Coppa del Mondo di Rugby (Sud Africa – Nuova Zelanda … e se Clint Eastwood ci ha fatto un film, ci sarà un perché), quella che ho visto più spesso nel corso degli anni. Salvo un unico evento sportivo.

Per questo motivo c’è ancora spazio per una storia, anche se per una soltanto.

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